TRIBUNALE DI BARI 
                           Sezione lavoro 
 
    Il Giudice del lavoro, dott.ssa Isabella Calia, 
    sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza del giorno  8
aprile 2019, 
    esaminati gli atti della causa per  controversia  in  materia  di
lavoro  iscritta  al  n.  14629/2017  del  R.G.  proposta  da  P.  A.
rappresentata e difesa dagli  avv.ti  Gianluca  Loconsole  e  Gaetano
Fabrizio Carbonara, ricorrente; 
    contro L.  S.r.l.,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro
tempore  rappresentata  e  difesa   dall'avv.   Antonella   Depunzio,
resistente; 
    uditi i procuratori delle parti e viste le conclusioni  formulate
all'esito della discussione relativa alla questione  di  legittimita'
costituzionale prospettata d'ufficio, concernente  l'art.  4  decreto
legislativo n. 23/2015 limitatamente alle parole «di importo  pari  a
una  mensilita'  retribuzione  di  riferimento  per  il  calcolo  del
trattamento  di  fine  rapporto  per  ogni  anno  di  servizio»,   in
riferimento agli articoli 3, 4 comma 1, 35 comma 1, 24 Cost., 
    ha pronunciato la seguente ordinanza  di  rimessione  degli  atti
alla Corte costituzionale. 
    Oggetto della causa: impugnazione di licenziamento  intimato  nei
confronti  di  lavoratrice  assunta  in  data  5  settembre  2016   e
conseguente domanda principale di reintegrazione nel posto di  lavoro
e risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2 o dell'art. 3, comma 2,
decreto  legislativo  n.  23/2015,  nonche'  domanda  subordinata  di
declaratoria di estinzione del rapporto  con  condanna  al  pagamento
dell'indennita' ex art. 3, comma 1 o art. 4, decreto  legislativo  n.
23/2015. 
    Oggetto della rimessione: art. 4, decreto legislativo n.  23/2015
limitatamente  alle  parole  «di  importo  pari  a   una   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento  di  fine  rapporto  per  ogni  anno  di  servizio»,   in
riferimento: 
        all'art. 3 Cost.; 
        all'art. 4, comma 1, Cost.; 
        all'art. 35, comma 1, Cost.; 
        all'art. 24 Cost. 
I fatti di causa. 
    La ricorrente ha impugnato  il  licenziamento  per  giusta  causa
intimatole con nota del 23 ottobre 2017, ricevuta il 24 ottobre 2017,
a  seguito  di  procedimento  disciplinare  avviato  con  lettera  di
contestazione dell'11 ottobre 2017. 
    In  particolare,  ha  lamentato  la  nullita'/illegittimita'  del
licenziamento  per  insussistenza  del  fatto  materiale  contestato,
deducendo la violazione del diritto di difesa e del  procedimento  ex
art.  7  St.  Lav.,  nonche'  il  difetto  di  giusta  causa  e/o  di
giustificato motivo soggettivo. 
    Costituitasi in giudizio, la  societa'  convenuta  ha  contestato
integralmente  la  fondatezza  delle  avverse  pretese,   concludendo
pertanto per il rigetto del ricorso. 
    Nella comunicazione  di  recesso  la  parte  datoriale  ha  fatto
riferimento a tre addebiti: in relazione  a  uno  di  essi  (presunta
condotta reticente o mendace, per avere  la  lavoratrice  taciuto  la
circostanza di essere stata tratta in  arresto)  e'  stata  accertata
l'insussistenza materiale del fatto contestato; in relazione ad altro
addebito (assenza  ingiustificata  dal  lavoro  per  piu'  di  cinque
giorni) e' stata accertata la violazione dell'obbligo  di  preventiva
contestazione ex art. 7 St. lav.;  il  terzo  e  principale  addebito
(grave violazione degli obblighi di diligenza,  correttezza  e  buona
fede  per  aver  posto  in  essere,  fuori  dall'ambito   lavorativo,
comportamenti tali da ledere gli interessi  morali  e  materiali  del
datore di lavoro) e' stato invece ritenuto sussistente e  sufficiente
a legittimare il licenziamento. 
    Tuttavia, l'intero iter disciplinare,  dunque  relativo  anche  a
tale ultimo  addebito,  e'  stato  viziato  dall'inosservanza,  della
disposizione  di  cui  all'art.  138,  comma  3  del   CCNL   Turismo
Confcommercio  -  pubblici  esercizi,  pacificamente  applicabile   e
applicato  al  rapporto  in  questione,  ai  sensi  del   quale   «La
contestazione  degli  addebiti  con  la  specificazione   del   fatto
costitutivo  della  infrazione  sara'  fatta  mediante  comunicazione
scritta nella quale sara' indicato il termine entro cui il lavoratore
potra' presentare gli argomenti a propria difesa.  Tale  termine  non
potra' essere, in nessun caso, inferiore a cinque giorni». 
    Dai documenti ritualmente prodotti in  giudizio  risulta  infatti
che nella nota di contestazione degli addebiti  e'  stato  del  tutto
omesso l'avviso, diretto alla lavoratrice, concernente la facolta' di
rendere giustificazioni nel termine  di  cinque  o  piu'  giorni,  in
violazione del richiamato art. 138, comma 3 CCNL,  che  nel  caso  di
specie ha integrato e reso piu' stringente il precetto  normativo  di
cui all'art. 7 St. lav. 
    Il licenziamento e' stato dunque ritenuto illegittimo  in  quanto
affetto da un vizio procedurale  o  formale,  con  esclusione  invece
della ricorrenza delle ipotesi di tutela reintegratoria ex art.  2  o
ex art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 (per  nullita',  o
per insussistenza dei fatti materiali posti a base del recesso) e con
esclusione altresi' della ricorrenza dell'ipotesi  di  illegittimita'
sostanziale di cui  all'art.  3,  comma  1,  decreto  legislativo  n.
23/2015 (per difetto di  giusta  causa  e/o  di  giustificato  motivo
soggettivo). 
    Con sentenza non definitiva pronunciata  in  data  4  marzo  2019
(allegato n. 1 alla presente ordinanza)  la  causa  e'  stata  decisa
limitatamente all'accertamento  dell'illegittimita'  procedurale  del
licenziamento impugnato, con conseguente individuazione della  tutela
applicabile  in  favore  della  lavoratrice  in   quella   apprestata
dall'art. 4, decreto legislativo  n.  23/2015,  ai  sensi  del  quale
«Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del
requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della  legge  n.
604 del 1966 o della procedura di cui all'art. 7 della legge  n.  300
del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data
del licenziamento e condanna il datore  di  lavoro  al  pagamento  di
un'indennita'  non  assoggettata  a  contribuzione  previdenziale  di
importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio, in misura comunque non inferiore a due e  non  superiore  a
dodici mensilita', a meno che il giudice, sulla  base  della  domanda
del  lavoratore,  accerti  la   sussistenza   dei   presupposti   per
l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3  del  presente
decreto»; il rapporto di lavoro e' stato pertanto dichiarato  estinto
a  decorrere  dal  24  ottobre  2017,   data   di   ricezione   della
comunicazione di licenziamento. 
    Non si e' tuttavia proceduto alla quantificazione dell'indennita'
spettante alla ricorrente ai sensi del  menzionato  art.  4,  decreto
legislativo n. 23/2015, ritenendosi  che  la  disposizione  non  vada
esente da censure di incostituzionalita' e che, d'altro canto, non vi
siano margini per una sua interpretazione conforme a Costituzione. 
    Con separata ordinanza pronunciata  nella  medesima  data  del  4
marzo 2019 (allegato n. 2) e'  stata  disposta  la  prosecuzione  del
giudizio esclusivamente ai  fini  della  determinazione  dell'importo
dell'indennita' ex art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 (nonche' ai
fini della regolamentazione delle spese di lite), e in tale  sede  e'
stata prospettata la necessita' di sollevare d'ufficio  la  questione
di legittimita' costituzionale della norma citata limitatamente  alle
parole «di importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione  di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per  ogni
anno di servizio» in riferimento agli articoli 3,  4  comma  1  e  35
comma 1 Cost., nei termini che saranno di seguito esposti. 
    La causa e' stata percio'  rinviata  all'udienza  di  discussione
dell'8 aprile 2019, con contestuale autorizzazione rivolta alle parti
a depositare brevi note in  ordine  alla  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    Parte ricorrente ha  condiviso  il  dubbio  di  costituzionalita'
prospettato dall'ufficio, richiamando la sentenza della  Consulta  n.
194/2018 che ha dichiarato parzialmente  incostituzionale  l'art.  3,
comma  1,  decreto  legislativo  n.  23/2015,  e  ritenendo  che   le
motivazioni ivi espresse siano perfettamente estensibili all'art. 4. 
    Parte  convenuta  ha  dichiarato  di  rimettersi  alla  decisione
dell'ufficio in ordine alla questione di costituzionalita'  dell'art.
4 del decreto legislativo n. 23/2015. 
La questione di legittimita' costituzionale. 
    Come gia' accennato in sede di esposizione dei fatti di causa, si
ritiene necessario procedere alla rimessione degli  atti  alla  Corte
costituzionale   affinche'    sia    scrutinata    la    legittimita'
costituzionale della norma di cui all'art. 4, decreto legislativo  n.
23/2015. 
    Tale disposizione e'  sicuramente  applicabile  e  rilevante  nel
giudizio a quo, all'esito del quale. con sentenza non definitiva,  la
domanda proposta dalla ricorrente e' stata accolta solo parzialmente,
sicche', escluse  la  nullita'  o  l'illegittimita'  sostanziale  del
licenziamento,  ne  e'  stata   invece   accertata   l'illegittimita'
procedurale e il rapporto di  lavoro  e'  stato  dichiarato  estinto,
proprio ai sensi dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/3015. 
    Si riporta qui nuovamente il testo della norma: «Nell'ipotesi  in
cui il licenziamento sia intimato con  violazione  del  requisito  di
motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n, 604 del 1966 o
della procedura di cui all'art. 7 della legge n.  300  del  1970,  il
giudice  dichiara  estinto  il  rapporto  di  lavoro  alla  data  del
licenziamento  e  condanna  il  datore  di  lavoro  al  pagamento  di
un'indennita'  non  assoggettata  a  contribuzione  previdenziale  di
importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio, in misura comunque non inferiore a due e  non  superiore  a
dodici mensilita', a meno che il giudice, sulla  base  della  domanda
del  lavoratore,  accerti  la   sussistenza   dei   presupposti   per
l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3  del  presente
decreto». 
    Nelle more del giudizio principale e' intervenuta la sentenza  n.
194  depositata  l'8  novembre  2018,   con   la   quale   la   Corte
costituzionale   ha   dichiarato   l'illegittimita'    costituzionale
dell'art. 3. comma 1, decreto legislativo n.  23/2015,  limitatamente
alle  parole  «di  importo  pari   a   due   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio». 
    Prima della pronuncia appena menzionata, l'art. 3, comma  1  cosi
recitava: «Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta
accertato  che  non  ricorrono  gli  estremi  del  licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo  o
giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro  alla
data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennita'  non  assoggettata  a  contribuzione  previdenziale  di
importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non  superiore
a ventiquattro mensilita'». 
    La  Consulta  ha   ritenuto   che   il   meccanismo   di   rigida
predeterminazione dell'indennizzo spettante in caso di  licenziamento
illegittimo,  ancorato   all'unico   parametro   dell'anzianita'   di
servizio, contrasti tanto con il principio di eguaglianza, quanto con
quello di ragionevolezza, non realizzando un adeguato contemperamento
degli interessi in conflitto; ha quindi chiarito  che.  nel  rispetto
dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va  quantificata
r indennita' spettante  al  lavoratore  illegittimamente  licenziato,
deve tenersi conto innanzitutto dell'anzianita' di servizio,  nonche'
degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione
della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei  dipendenti
occupati,  dimensioni  dell'attivita'  economica,   comportamento   e
condizioni delle parti). 
    Con la medesima pronuncia la Corte ha dichiarato inammissibile la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  di  cui  in
questa sede occorre fare applicazione. 
    La  declaratoria  di  inammissibilita'  e'  pero'  scaturita  dal
giudizio di irrilevanza della questione, essendo il menzionato art. 4
inapplicabile in quel giudizio a quo, sicche' l'eventuale risoluzione
della questione prospettata con riferimento alla citata  disposizione
non avrebbe avuto alcuna incidenza sul procedimento pendente  dinanzi
al rimettente. 
    Ne consegue che non e' preclusa la riproposizione della questione
sull'art. 4 nel corso di un giudizio, come il presente, ove  esso  e'
sicuramente rilevante. 
    Essendo  perfettamente  sovrapponibile  il  criterio  di  calcolo
dell'indennita', e' inevitabile valutare l'incidenza della  pronuncia
n. 194/2018 anche sull'art. 4. 
    Le parole censurate dalla Consulta, contenute  nell'art.  3  («di
importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio»), sono infatti identiche,  tranne  che  per  il  numero  di
mensilita' (due invece  che  una),  alla  dizione  dell'art.  4  («di
importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio»). 
    Orbene, si ritiene che  la  declaratoria  di  incostituzionalita'
dell'art. 3, comma 1 non possa spiegare effetti immediati  e  diretti
sulla norma applicabile  nel  presente  procedimento  (art.  4):  sia
perche' quest'ultima contiene  una  previsione  distinta  e  autonoma
rispetto all'art. 3, a differenza, per esempio, dell'art. 9,  decreto
legislativo n. 23/2015. che rinvia invece espressamente  all'art.  3,
comma 1 per stabilire la base di calcolo  dell'indennizzo  dovuto  ai
dipendenti  delle  piccole  imprese;  sia  perche'  la  questione  di
costituzionalita' dell'art.  4,  pure  sollevata  dall'altro  giudice
rimettente,  e'  stata  dichiarata  inammissibile  (per  difetto   di
rilevanza); sia perche' alcune delle  argomentazioni  espresse  dalla
Consulta a sostegno della declaratoria di illegittimita' dell'art. 3,
comma  1  fanno  riferimento  al  caso  specifico  del  licenziamento
«ingiustificato», cioe' privo  di  valido  motivo,  non  sorretto  da
giusta causa o da giustificato  motivo  soggettivo,  che  e'  ipotesi
diversa da quella qui in discussione,  concernente  un  licenziamento
illegittimo in quanto affetto da vizio procedurale. 
    D'altronde, le due norme sono state  introdotte  nell'ordinamento
per sanzionare diversi tipi di illegittimita', risultando  l'art.  3,
comma 1 applicabile «nei  casi  in  cui  risulta  accertato  che  non
ricorrono gli  estremi  del  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo o per giustificato motivo soggettivo  o  giusta  causa»,  e
venendo  invece  in  rilievo  l'art.  4  «Nell'ipotesi  in   cui   il
licenziamento  sia  intimato  con   violazione   del   requisito   di
motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o
della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970». 
    Il meccanismo  previsto  dall'art.  4  non  puo'  quindi  restare
travolto dalla declaratoria di incostituzionalita' che ha interessato
l'art. 3. 
    Tuttavia, proprio perche' le due disposizioni adottano lo  stesso
congegno, ancorato esclusivamente all'anzianita' di servizio, i dubbi
circa la legittimita' dell'una non possono discostarsi da quelli gia'
acclarati in ordine  all'illegittimita'  dell'altra,  e  conducono  a
richiedere una espressa pronuncia della Corte costituzionale. 
    Come  gia'  accennato,  infatti,  oggetto  delle   doglianze   di
illegittimita' non e' stato il quantum delle soglie minima e  massima
entro cui puo' essere stabilita l'indennita', bensi' il meccanismo di
determinazione dell'indennita' stessa, posto che la  norma  presa  in
esame dalla Consulta (art. 3), al pari di  quella  da  applicare  nel
presente  giudizio  (art.  4),  introduce  un   criterio   rigido   e
automatico, basato sull'anzianita' di servizio,  tale  da  precludere
qualsiasi discrezionalita' valutativa, in violazione dei principi  di
eguaglianza  e  di  ragionevolezza,  in  quanto  in   contrasto   con
l'esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio
subito dal lavoratore, nonche' un'adeguata dissuasione del datore  di
lavoro dal licenziare ingiustamente o illegittimamente. 
    La Corte, con la  sentenza  n.  194/2018,  ha  rilevato  che  «Il
meccanismo di  quantificazione  indicato  connota  l'indennita'  come
rigida, in quanto non graduabile in  relazione  a  parametri  diversi
dall'anzianita'  di  servizio,  e  la  rende  uniforme  per  tutti  i
lavoratori con la stessa  anzianita',  L'indennita'  assume  cosi'  i
connotati di una liquidazione legale forfettizzata e  standardizzata,
proprio  perche'  ancorata  all'unico  parametro  dell'anzianita'  di
servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall'illegittima
estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato. 
    Il meccanismo  di  quantificazione  dell'indennita'  opera  entro
limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l'alto», giungendo ad
affermare che «In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore
nel momento traumatico della sua espulsione  dal  lavoro,  la  tutela
risarcitoria   non   puo'   essere   ancorata   all'unico   parametro
dell'anzianita' di servizio. Non  possono  che  essere  molteplici  i
criteri  da  offrire  alla  prudente  discrezionale  valutazione  del
giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalita' si
esercita, comunque,  entro  confini  tracciati  dal  legislatore  per
garantire una calibrata modulazione del  risarcimento  dovuto,  entro
una soglia minima e una massima. 
    All'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i
valori  dell'impresa,  la  discrezionalita'  del  giudice   risponde,
infatti, all'esigenza  di  personalizzazione  del  danno  subito  dal
lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. 
    La previsione di una misura risarcitoria  uniforme,  indipendente
dalle peculiarita' e dalla diversita' delle vicende dei licenziamenti
intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione
di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta -
diverse». 
    Pertanto, l'art.  3,  comma  1,  nella  parte  in  cui  determina
l'indennita'  in  un  «importo  pari  a  due  mensilita'  dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio», e' stato  ritenuto  contrastante
con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata
omologazione di situazioni diverse. 
    Con riguardo al  principio  di  ragionevolezza,  la  Consulta  ha
censurato l'art. 3, comma 1 per una duplice ragione. 
    Da un canto, e' stata ravvisata l'inidoneita'  dell'indennita'  a
costituire un adeguato ristoro del concreto  pregiudizio  subito  dal
lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, in quanto «(...) la
rigida dipendenza dell'aumento dell'indennita'  dalla  sola  crescita
dell'anzianita' di servizio mostra la  sua  incongruenza  soprattutto
nei casi di anzianita' di servizio non elevata, come nel  giudizio  a
quo. In tali casi,  appare  ancor  piu'  inadeguato  il  ristoro  del
pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che  a  cio'
possa   sempre   ovviare   la   previsione   della   misura    minima
dell'indennita' di quattro (e, ora, di sei) mensilita'». 
    Dall'altro, la  Consulta  ha  ritenuto  l'indennita'  inidonea  a
costituire  un'adeguata  dissuasione  del  datore   di   lavoro   dal
licenziare illegittimamente, poiche' «l'inadeguatezza dell'indennita'
forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla  sua
primaria funzione  ripartorio-compensativa  del  danno  sofferto  dal
lavoratore ingiustamente licenziato e'  suscettibile  di  minare,  in
tutta  evidenza,  anche  la  funzione  dissuasiva  della  stessa  nei
confronti  del  datare  di  lavoro,  allontanandolo  dall'intento  di
licenziare  senza   valida   giustificazione   e   di   compromettere
l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto». 
    In relazione ai parametri costituzionali degli articoli 4.  primo
comma e 35, primo comma, Cost., si e' poi osservato che «Alla luce di
quanto si e' sopra argomentato circa il fatto che l'art. 3, comma  l,
del decreto legislativo n. 23 del 2015, nella  parte  appena  citata,
prevede una tutela economica che  non  costituisce  ne'  un  adeguato
ristoro del danno prodotto, nei vari  casi,  dal  licenziamento,  ne'
un'adeguata  dissuasione  del  datore  di   lavoro   dal   licenziare
ingiustamente, risulta evidente che una sfatta tutela  dell'interesse
del lavoratore alla stabilita' dell'occupazione  non  puo'  ritenersi
rispettosa degli articoli 4, primo comma, e 35, primo  comma,  Cost.,
che tale interesse. appunto, proteggono. 
    L'irragionevolezza del rimedio previsto dall'art. 3, comma 1, del
decreto legislativo n. 23 del 2015 assume,  in  realta',  un  rilievo
ancor maggiore alla luce del particolare valore che  la  Costituzione
attribuisce al lavoro (articoli 1, primo comma, 4 e  35  Cost.),  per
realizzare un pieno sviluppo della personalita' umana». 
    Cosi'  sintetizzati  alcuni   dei   profili   di   illegittimita'
costituzionale riscontrati  con  riferimento  all'art.  3,  comma  1,
decreto  legislativo  n.  23/2015,  si  osserva  che  dubbi  analoghi
investono la conformita' alla Costituzione dell'omologo  criterio  di
quantificazione  dell'indennita'  previsto  dal  successivo  art.  4,
ritenendosi che i principi affermati dalla Corte costituzionale siano
estensibili anche a quella parte dell'art. 4 che  ricalca  fedelmente
l'inciso  dell'art.  3  ormai  espunto  dall'ordinamento  in   quanto
incostituzionale. 
    Invero, le esigenze di adeguato ristoro del  pregiudizio  subito,
di commisurazione del costo del licenziamento illegittimo anche  alla
capacita'   economica   dell'impresa,   di    valorizzazione    delle
peculiarita' del caso concreto, valutate dalla Consulta in  relazione
all'ipotesi del licenziamento illegittimo  per  ragioni  sostanziali,
non possono essere ignorate nei casi di licenziamento  viziato  sotto
il profilo formale o procedurale,  atteso  che  anche  le  violazioni
procedurali possiedono diverse gradazioni di  gravita',  e  anche  un
licenziamento  illegittimo  per  questioni  di  forma  puo'  produrre
pregiudizi  differenziati  in  base  alle  condizioni  delle   parti,
all'anzianita' del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda. 
    Ne' puo' sostenersi che,  stante  la  minore  gravita'  dei  vizi
procedurali rispetto a quelli sostanziali (minore gravita' che non e'
in discussione, essendo stata sancita a monte dal legislatore tramite
la diversificazione delle soglie  minima  e  massima  dell'indennita'
negli  articoli  3  e  4,  decreto  legislativo   n.   23/2015),   le
argomentazioni espresse dalla  Consulta  in  ordine  all'art.  3  non
potrebbero valere per l'art. 4, in quanto, lo si  ribadisce,  oggetto
di censura non sono la misura  in  se'  dell'indennita'  o  i  limiti
minimo e massimo della stessa, bensi'  esclusivamente  il  meccanismo
automatico di calcolo, che e' (era) previsto in maniera assolutamente
analoga dagli articoli 3 e 4, decreto legislativo n. 23/2015. 
    E' del resto innegabile che il diritto a essere  licenziati  solo
all'esito di un regolare procedimento  disciplinare,  o  comunque  in
virtu' di un provvedimento chiaro, espresso. specifico, motivato, non
riceverebbe  adeguata  tutela  da  un  meccanismo  risarcitorio   che
consentisse   di   predeterminare   in   maniera   fissa    l'importo
dell'indennita' sulla base  del  solo  criterio  dell'anzianita'  del
dipendente,  risultando  tale  rimedio  non  congruo  rispetto   alla
finalita' di dissuadere i  datori  di  lavoro  dal  porre  in  essere
licenziamenti affetti da vizi di forma: parimenti, un  tale  congegno
automatico  di   quantificazione   dell'indennita'   impedirebbe   di
valorizzare la differente gravita'  delle  violazioni  commesse,  che
invece il precedente legislatore ha espressamente mostrato  di  voler
tenere   in   considerazione,   indicandola   quale    criterio    di
commisurazione del risarcimento (cfr. art. 18, comma 6 St. lav. cosi'
come modificato dalla legge  n.  92/2012:  «Nell'ipotesi  in  cui  il
licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del  requisito
di motivazione di cui all'art. 2, comma  2,  della  legge  15  luglio
1966, n. 604, e successive  modificazioni,  della  procedura  di  cui
all'art. 7 della presente legge, o della procedura di cui all'art.  7
della legge 15 luglio 1966, n. 604, e  successive  modificazioni,  si
applica il regime di cui al quinto  comma,  ma  con  attribuzione  al
lavoratore di un'indennita' risarcitoria onnicomprensiva determinata,
in relazione alla gravita' della  violazione  formale  o  procedurale
commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un  massimo  di
dodici mensilita' dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto,  con
onere di specifica motivazione a tale riguardo»). 
    L'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 contrasta dunque  con  i
principi di ragionevolezza  e  di  uguaglianza  sanciti  dall'art.  3
Cost., nonche' con gli articoli 4, comma  1  e  35,  comma  1  Cost.,
poiche'  una  tutela  inadeguata  a  fronte   di   un   licenziamento
illegittimo sotto il profilo procedurale e'  altrettanto  lesiva  del
diritto  al  lavoro  quanto  l'analoga   inadeguata   tutela,   ormai
dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi
sotto il profilo sostanziale. 
    Va  inoltre  considerato  che  le  garanzie   procedurali   poste
dall'ordinamento a presidio di un regolare e legittimo  licenziamento
disciplinare (la cui violazione ha appunto determinato la valutazione
di illegittimita' del licenziamento nel presente giudizio a quo) sono
espressione del  diritto  di  difesa  tutelato  dall'art.  24  Cost.,
sicche' l'irragionevole modalita' di calcolo dell'indennita' prevista
dall'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 finisce  per  contrastare
anche con il precetto costituzionale del richiamato art. 24. 
    Come ricordato dalla stessa Corte costituzionale (sentenze n. 460
del 2000, n. 182 del 2008), vero e' che  la  proclamazione  contenuta
nell'art. 24 Cost. indubbiamente si dispiega nella pienezza  del  suo
valore   prescrittivo   solo   con   riferimento   ai    procedimenti
giurisdizionali; essa non manca tuttavia di riflettersi,  seppure  in
maniera piu' attenuata, sui  procedimenti  disciplinari,  in  ragione
della  «natura  sanzionatoria  delle  pene  disciplinari,  che   sono
destinate ad incidere sullo stato della persona nell'impiego o  nella
professione» (Corte cost., sentenza n. 71 del  1995).  L'approdo  del
procedimento puo' toccare invero la sfera lavorativa e, con essa,  le
condizioni  di  vita  della  persona  e  postula  percio',  anche  in
relazione  ai  procedimenti  non  aventi  carattere  giurisdizionale,
talune garanzie che non possono mancare, quali la contestazione degli
addebiti e la conoscenza, da parte dell'interessato, dei fatti e  dei
documenti sui quali si fondano (Corte  cost.,  sentenza  n.  505  del
1995). 
    D'altro  canto,  gli  ultimi  arresti  della  giurisprudenza   di
legittimita' ribadiscono che l'esercizio dei  diritto  di  difesa  ha
piena copertura, in virtu' dell'art.  24  Cost.,  anche  in  sede  di
procedimento  disciplinare  ex  art.  7,  legge  n.  300/1970   (cfr.
Cassazione n. 13383/2017, n. 16590/2018). 
    Si auspica pertanto che anche dall'art.  4.  al  pari  di  quanto
avvenuto per l'art. 3, siano espunte le parole «di importo pari a una
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», e  che,  nel
rispetto dei limiti, minimo e  massimo,  dell'intervallo  in  cui  va
quantificata l'indennita' (da due a dodici mensilita'), possa tenersi
conto  innanzitutto  dell'anzianita'  di  servizio,   nonche'   della
gravita'  della  violazione  formale  o  procedurale  (criterio  gia'
espressamente previsto dall'art. 18, comma 6 St. lav.) e degli  altri
parametri indicati  dalla  Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.
194/2018 (numero dei dipendenti occupati,  dimensioni  dell'attivita'
economica, comportamento e condizioni delle parti). 
Rilevanza della questione. 
    Nel caso di specie, nella vigenza della norma qui  sospettata  di
incostituzionalita', la ricorrente avrebbe  diritto  a  un'indennita'
pari a due mensilita', posto che il suo rapporto lavorativo e' durato
poco piu' di un anno (dal 5 settembre 2016 al 24 ottobre 2017). 
    Se, viceversa, la questione  di  legittimita'  fosse  accolta  in
termini analoghi a quanto avvenuto per l'art. 3, comma 1,  i  criteri
da utilizzare per  la  commisurazione  dell'indennita',  in  aggiunta
all'anzianita'  di  servizio,  potrebbero  essere   ricercati   nelle
disposizioni di cui all'art. 8, legge n. 604/1966 e art. 18, comma  6
St.  lav.  (che  a  sua  volta  richiama  il  comma   5,   prevedendo
l'applicazione  del  «regime  di  cui  al  quinto   comma,   ma   con
attribuzione   al   lavoratore    di    un'indennita'    risarcitoria
onnicomprensiva  determinata,  in  relazione  alla   gravita'   della
violazione formale o procedurale commessa dal datore di  lavoro,  tra
un minimo di sei  e  un  massimo  di  dodici  mensilita'  dell'ultima
retribuzione globale di fatto, con onere di specifica  motivazione  a
tale riguardo»). 
    Occorrerebbe  quindi  considerare,  da  un   lato,   la   ridotta
anzianita' di servizio della ricorrente (un anno), fattore che sposta
la misura dell'indennita' verso il limite  minimo  (due  mensilita');
dall'altro, gli elementi  che  invece  inducono  ad  aumentare  detta
misura,  vale  a  dire  le  notevolissime   dimensioni   dell'impresa
convenuta  in  termini  di  fatturato  e  l'elevatissimo  numero   di
dipendenti  occupati  (nell'ordine  di  migliaia),  nonche'  la   non
trascurabile entita' della violazione commessa dalla societa' datrice
(mancata  indicazione  del  termine  a  difesa   nella   lettera   di
contestazione),  unitamente  alla  circostanza  che  uno  solo  degli
addebiti posti a fondamento del recesso e' risultato sussistente:  la
valutazione ponderata di tali criteri indurrebbe a ritenere equa, fra
il minimo  di  2  e  il  massimo  di  12,  un'indennita'  sicuramente
superiore al minimo. 
    Ma anche laddove, nell'ipotesi  di  accoglimento  della  presente
questione. i parametri cui ancorare la commisurazione dell'indennita'
venissero individuati non gia' nel combinato disposto dei commi 5 e 6
dell'art. 18 St. lav.,  bensi'  unicamente  nel  comma  6,  dovendosi
percio' valorizzare, unitamente all'anzianita' di servizio,  solo  la
minore o maggiore gravita' della violazione, e'  innegabile  che  nel
caso di specie la misura dell'indennizzo  spettante  alla  ricorrente
sarebbe superiore al minimo,  in  quanto  la  violazione  procedurale
commessa dalla datrice di lavoro non e' di lieve entita': non solo e'
stata omessa l'indicazione del termine entro cui rendere le eventuali
giustificazioni, ma e' stata anche del  tutto  omessa  la  preventiva
contestazione di  uno  degli  addebiti  (assenza  ingiustificata  dal
lavoro per piu' di cinque giorni). 
Impossibilita' di interpretazione conforme a Costituzione. 
    La formulazione dell'art. 4, decreto legislativo n.  23/2015  (al
pari di quella dell'art.  3,  comma  1)  non  offre  possibilita'  di
interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto  il  criterio
dell'anzianita' lavorativa e' categoricamente indicato  come  l'unico
in base al  quale  modulare  il  risarcimento,  in  rapporto  di  una
mensilita' per ogni anno di  servizio,  sicche'  l'unica  alternativa
alla   applicazione   letterale   della   norma   sarebbe   la    sua
disapplicazione,  interdetta  in  difetto   di   una   pronuncia   di
incostituzionalita'. 
    Nell'evidente      impossibilita'      di      un'interpretazione
costituzionalmente adeguata a fronte del chiarissimo tenore letterale
della disposizione, e nell'altrettanto evidente  impossibilita',  per
le ragioni  in  precedenza  esposte,  di  estendere  in  via  diretta
all'art.  4  gli  effetti  della  sentenza  n.  194/2018,  e'  dunque
inevitabile sollevare il presente incidente di costituzionalita'. 
    D'altro canto, questo giudice non si riconosce il potere, in sede
di interpretazione conforme,  di  determinare,  in  base  al  proprio
convincimento,  la  sanzione  adeguata  in  caso   di   licenziamento
illegittimo, ne' tantomeno il potere di applicare  al  caso  concreto
una norma diversa da quella  prevista  dal  legislatore  (in  ipotesi
applicando l'art. 18, comma 6, legge n. 300/1970, in luogo  dell'art.
4, decreto legislativo n.  23/2015),  non  potendo  l'interpretazione
conforme risolversi,  com'e'  noto,  in  un  effetto  sostanzialmente
abrogativo. 
    In conclusione, alla luce  delle  precedenti  considerazioni,  si
ritiene rilevante e non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale della norma indicata  in  dispositivo  in
relazione ai profili sopra esposti. 
    Il giudizio in corso  deve  quindi  essere  sospeso  e  gli  atti
rimessi alla Corte costituzionale.